Breve, intenso e raffinatissimo, Il Mago di Riga è un romanzo filosofico che segnalo tra i più significativi di questo 2022. Ne parlo con l’autore Giorgio Fontana in una breve intervista.
Tra i libri che hanno segnato questo anno di letture e di incontri, c’è sicuramente Il Mago di Riga, l’ultimo romanzo Giorgio Fontana, pubblicato la scorsa primavera da Sellerio.
Si tratta di un romanzo breve, intenso, raffinatissimo, costruito con la perfezione stilistica che contraddistingue la cifra espressiva dell’autore. In poco più di un centinaio di pagine, Giorgio Fontana ricostruisce la storia di Michail Tal’, scacchista sovietico e campione del mondo tra il 1960 e il 1961. La narrazione comincia proprio dalla fine della storia: il 5 maggio del 1992, Miša – così era soprannominato – disputa la sua ultima partita di un torneo contro il giovane Akopian; tra una mossa e l’altra, in un gioco di flashback, il campione ripercorre la propria esistenza, le tappe significative, gli snodi emotivi. Non si tratta, però, di un racconto biografico. Ricostruendo la storia di Michail Tal’, l’autore ci consegna piuttosto un romanzo filosofico in cui il gioco degli scacchi non è altro che l’espressione di un modus vivendi.
All’assalto, sempre. All’assalto, avanti.
Occorre agguantare l’avversario e trascinarlo nel fitto di una foresta dove le regole saltano – dove due più due fa cinque e per uscirne vivi esiste appena un impervio sentiero, una viuzza nascosta tra felci rovi e tronchi caduti, percorribile da un giocatore solo. Certo gli stili arditi esistevano già da tempo, ma ad essi Miša aggiungeva una nuova sfumatura: il puro rapimento del paradosso, e la scelta deliberata della continuazione più interessante, in luogo della più efficace.
Eccessivo, ironico, generoso, incline al rischio e al paradosso. Se nell’immaginario comune si pensa al gioco degli scacchi come il trionfo della logica e della prudenza, Michail Tal’ fu un campione sui generis, rivoluzionario e sovversivo. Per lui, di salute cagionevole fin da bambino, il gioco degli scacchi – e il gioco più in generale – era una metafora della vita: un modo per “sfiorare il limite“, come diceva Bataille, “andare il più lontano possibile” e sfidare la morte.
Per Miša, che viveva intensamente ogni momento – vittorie, delusioni, amori, sbronze e malattie – l’importante non era non commettere errori, come invece pensavano i Grandi maestri che lo avevano preceduto e spesso lo rimproveravano; piuttosto imporre la propria personalità, sfidare la logica con coraggio, in una continua ricerca della meraviglia e della bellezza.
INTERVISTA ALL’AUTORE
Pur non essendo un romanzo storico o una biografia vera e propria, Il Mago di Riga ti ha comportato un importante lavoro sulle fonti, che tu riporti in una nota alla fine del libro. Come ti sei orientato nella scelta del materiale da utilizzare per la stesura della storia?.
Giorgio Fontana – Amo molto fare ricerche prima di scrivere un romanzo, e in questo caso il lavoro era ulteriormente motivato da un fatto: il protagonista è una persona realmente esistita. Non abbiamo una biografia di Tal’, solo i suoi libri e numerosi documenti e testi di memorie: ciò da un lato forniva una grande quantità di materiale sparso, ma imponeva anche la necessità di una scelta rigorosa per non cadere nell’aneddotica. Diciamo che ho organizzato i fatti attorno ad alcuni nuclei tematici che mi interessavano: la libertà, il sacrificio, il gioco, il rapporto con il potere e così via.
«Aveva scelto di vivere fino allo stremo: senza tradire la propria educazione, il galateo che animava ogni suo gesto, amabilità garbo e cortesia; ma fino allo stremo.»
Tal era un uomo estremamente gentile, nel libro riporti diversi esempi della sua generosa cortesia. Credi si possa definire questa sua amabilità come il lato bianco del rischio?
G.F. – Mi piace molto questa definizione. Tal’ era estremamente aggressivo sulla scacchiera – coltivava uno stile tutto votato al rischio e all’attacco – ma nella vita era di fatto una persona molto dolce, cordiale, sportiva; è come se convivessero due lati, appunto, nella sua personalità. Spasskij l’ha definito un giocatore di “divina gentilezza”, ed è senz’altro vero – considerato anche l’ambiente molto competitivo in cui si muoveva.
Il crollo dell’Unione Sovietica coincise per il campione lettone con la perdita di un mondo non solo politico ma anche sociale e culturale, in cui gli scacchi avevano un valore specifico e in cui rappresentavano la possibilità di sfuggire al regime.
G.F. – Gli scacchi nell’URSS erano motivo di propaganda, e il campione del mondo doveva essere idealmente un uomo maturo, posato, serio, inquadrato nell’ottica di regime. Tal’ era l’esatto opposto! Nel mio romanzo ho provato a indagare, con le armi della finzione, questa differenza radicale; e mi sono chiesto, narrativamente, in che modo il gioco potesse fungere da forma di resistenza al regime.
«Il vero modo di sfuggire al sistema, pensava Miša, non è combattere né fuggire. È tentare di fregartene. (…) Devi solo garantire a te stesso un luogo a riparo dall’arbitrio, dalle idee che gli altri hanno di te, dalla trama che vincola e strozza la società intera: un millimetro dove nessuno può scrutare.»
Nel libro dici che per Miša gli scacchi erano la “paziente tessitura di un altrove”, un modo per forzare i limiti della probabilità alla ricerca della bellezza. Non è così anche per la letteratura?
G.F. – Senz’altro. Io credo che la letteratura – così come ogni altra forma d’arte – crei un mondo alternativo ed estremamente reale, che non cancella quello in cui ci muoviamo ma ci consente di comprenderlo meglio (o di fuggire da esso quando si fa insostenibile). Sono convinto abbia ragione George Steiner nel parlare di “vere presenze” che animano la lettura; e preferisco citarlo per esteso: “Al centro della mia posizione c’è una cosa estremamente semplice e chiara. È un sonetto di Rilke, quello al torso antico di Apollo, in cui lui dice che “Cambia la tua vita”. Una lettura seria e profonda cambia la mia vita: è un incontro con una apparizione imprevista, come un incontro all’angolo della strada con l’amante, con l’amico, con il nemico mortale”.
Lo stile e la struttura narrativa del romanzo si differenziano da quelli da te utilizzati nel libro precedente, Prima di noi: ogni parola, oltre a mantenere un esatto peso specifico, una chiarezza e una rigorosità impeccabili, sembra calare in profondità il pensiero. Immagino che questa precisione stilistica sia frutto di uno scrupoloso lavoro.
G.F. – Sì, come dico spesso terminare Prima di noi è stato come uscire da una “prigione strutturale”: il libro era estremamente complesso dal punto di vista narrativo, e ora concentrarmi in modo particolare sullo stile – viste anche le dimensioni ridotte del Mago di Riga – è stato tonificante. Ho riscritto e riscritto più volte le sequenze narrative, dedicandomi con grande passione alla ricerca della parola più precisa, e insieme infondendo un tono più lirico alla lingua. Ora l’obiettivo è fondere questi due aspetti: stile rinnovato e dimensione strutturale. Vedremo.
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