Il nuovo, avvincente romanzo di Giuseppe Catozzella è la storia di Maria Oliverio, una giovane donna calabrese che, all’alba dell’unità d’Italia, si ribella al proprio destino di povertà e diventa Ciccilla, brigantessa capobanda. Ne parlo con l’autore in una breve intervista.
Italiana. È questo il titolo del nuovo romanzo di Giuseppe Catozzella, da poco edito da Mondadori. Ma è anche il sogno di una patria a cui anela la protagonista del libro, Maria Oliverio, una donna tenace e ribelle, che nell’Italia post risorgimentale vede tradire le proprie speranze di giustizia e libertà.
La storia e Maria
È bambina Maria quando iniziamo a seguirne le vicende. Nata a Casole, nella Sila calabrese, da famiglia poverissima, si distingue subito per la perseveranza con cui risponde agli eventi avversi della vita. Maria si lascia forgiare dai libri – messi a disposizione dalla maestra Donati, donna illuminata e fedele ai valori liberali del Risorgimento – e dalla natura selvaggia che la circonda, quella foresta che in seguito le darà rifugio e le restituirà la libertà. Man mano che cresce, matura uno sguardo disilluso e consapevole sugli avvenimenti che sconvolgono la sua vita e la sua terra costringendola a ribellarsi ai soprusi familiari e politici, per diventare la brigantessa Ciccilla, a cui perfino Alexandre Dumas dedicò una serie di articoli sul L’indipendente, il giornale che diresse dal 1860 al 1864.
Alle radici della Nazione
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Così scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò.
Attraverso questo romanzo storico, Giuseppe Catozzella ci racconta una vicenda che esula dalla narrazione edulcorata e scolastica del Risorgimento, per costringerci a scavare fino alle radici della nascita della patria, mostrandone le carie e le illusioni, e soprattutto i risvolti ambigui che ancora contraddistinguono il nostro Paese. Con coraggio Catozzella si inserisce in un dibattito aperto e recentemente rinnovato, che ci porta a riflettere nuovamente sulla questione meridionale e sul dramma di una terra ancora sofferente.
PAROLA ALL’AUTORE
La prima curiosità riguarda proprio la nascita del romanzo: tu racconti il personaggio di Maria Oliverio intrecciando verità storiche e leggenda. Di quali fonti ti sei servito? Che tipo di ricerca hai condotto?
Giuseppe Catozzella – Il lavoro di studio e di documentazione è stato lunghissimo. L’esistenza di Maria è ricostruita sui faldoni dei suoi processi, avvenuti tra il 1864 e il 1875, custoditi all’Archivio dello Stato di Roma, all’Archivio dello Stato maggiore dell’Esercito e all’Archivio di Stato di Cosenza. Fondamentali sono stati gli studi del maggiore storico vivente sulla figura di Ciccilla, Peppino Curcio, che alla sua vita ha dedicato uno studio dettagliato. E poi, oltre ai saggi di storia dell’epoca, un fitto studio di storia sociale dell’epoca, ricavata dalla diaristica, dalle testimonianze, dalle prime fotografie, dagli studi di Lombroso, eccetera eccetera.
«Stava nascendo, lo vedevo io come lo vedevano tutti, un popolo di civette e quel popolo sarebbe stato l’italiano».
Descrivi così il trasformismo che connota il periodo immediatamente precedente l’unità d’Italia. La rivoluzione si traduce presto in un tradimento, una messinscena che necessita del sacrificio di giovani idealisti per mantenere tutto immutato nella sostanza. Perché hai scelto la metafora della civetta? E non ti sembra che quest’Italia sia la stessa anche oggi?
G.C. – Certo, l’Italia è la stessa anche oggi. Come diceva Benedetto Croce per capire il carattere di un popolo basta guardarne la storia. Siamo quello che eravamo nel momento in cui siamo nati, e proprio la descrizione – basata sui documenti che fanno la radiografia dei mesi che hanno portato alla nascita del nostro Paese attraverso la storia reale di una donna – del nostro carattere nazionale, sempre sfuggente, sempre sul punto di farsi, è stato uno dei motori principali di questo lavoro. La civetta di Italiana è il gattopardo di Tomasi di Lampedusa ed è la civetta di Sciascia. Siamo noi italiani, oggi come ieri. Per muoverci dal nostro proverbiale immobilismo dovremmo tornare con coraggio al grande rimosso nazionale della guerra civile italiana che ha contrapposto Nord e Sud subito dopo l’Unità, alle sue cause e alle sue conseguenze, cosa mai avvenuta e che io provo a fare nel romanzo. Solo così, credo, potremo trovare pace con la nostra natura di italiani e potremo cercare di metterci alla pari con i popoli degli altri Paesi industrializzati.
«La libertà, dove ancora non esiste, prende la forma di quello che non c’è, prima di mostrarsi come scandalo»
Dice Maria nel suo racconto. In questo romanzo non ti discosti dal percorso intrapreso nei libri precedenti: Ciccilla è il frutto di una società che non sa difendere i più deboli dai soprusi, costringendoli allo scandalo della lotta. Ma alcuni storici contestano questa definizione dei briganti come combattenti per la libertà e la giustizia.
G.C. – Certo, il brigantaggio, avendo perso la guerra civile è passato alla storia nazionale come fenomeno meramente criminale. Invece in sé conteneva quello che prima definivo il nostro grande rimosso collettivo nazionale, ovvero il fatto che in realtà è stato un massiccio fenomeno politico e sociale che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, che hanno combattuto contro il tradimento su cui il nostro Paese era appena stato fondato. Tradimento in cui proprio loro erano stati schiacciati. E non si è trattato esclusivamente di un fenomeno popolare, tra i briganti – come lo stesso Pietro, il marito di Maria – c’erano molti quadri dell’ex esercito borbonico, e soprattutto – sempre come lo stesso Pietro e come gli altri membri della loro banda – moltissimi garibaldini. Insomma, nella gran parte dei casi coloro che sono passati alla nostra storia come briganti sono stati volontari che hanno combattuto per fare l’Italia, ispirati dai più alti valori di libertà e di giustizia. Per fare dell’Italia, come era nelle premesse e nelle promesse, un Paese emancipato e moderno, alla stregua della vicina Francia. Una volta traditi gli ideali per cui avevano combattuto, hanno preso le armi contro i traditori ed è scoppiata la guerra civile che ha contrapposto centinaia di migliaia di uomini dall’una (il Nord con i suoi bersaglieri, cacciatori delle alpi, carabinieri, esercito regio) e dall’altra parte. Una guerra combattuta nei boschi e nelle montagne, dall’Emilia Romagna fino alla Sicilia.
«Tu così devi diventare. Come questo pino laricio. Che si fa furbo e in silenzio usa il vento per scappare, e salvarsi.»
Dedichi pagine bellissime alla descrizione della foresta calabrese. Il bosco è il simbolo della libertà perduta; viene depredato e sfregiato così come la dignità delle persone sottratte alla loro terra. L’Italia nasce da una sopraffazione sulla natura?
G.C. – Se vogliamo usare termini generali, ogni organizzato consesso umano nasce da una sopraffazione sulla natura. Organizzarci e darci delle regole condivise significa reprimere una parte della nostra naturalità. Ma nel romanzo mi interessava soltanto rimanere fedele a ciò che emerge dalle carte dei processi a Maria. E da quelle carte emerge anche la spoliazione della Sila per produrre legname per creare traversine per le ferrovie del Nord (al Sud una rete ferroviaria ha dovuto attendere decine di anni poi per essere costruita, e ancora oggi è tutto tranne che sufficiente, spesso le tratte sono ancora quelle di inizio ‘900).
«Quando ci manca il coraggio, troviamo la scusa che le parole sono soltanto parole. Invece sono armi per cambiare il mondo.»
Nel romanzo evidenzi più volte quale sia stata l’importanza dell’istruzione e dei libri per la giovane Maria. Si può affermare che la letteratura, al contrario della politica, sia riuscita a creare una patria attraverso le parole per raccontarla?
G.C. – Questo è quello che gli intellettuali dell’epoca avrebbero voluto e hanno cercato di fare con tutte le loro forze. Manzoni, Berchet, Pellico, Cattaneo, Foscolo, Giuseppe Verdi, Massimo D’Azeglio, eccetera, tutti loro hanno faticosamente cercato di creare uno spirito nazionale in un Paese che doveva nascere e che di spirito nazionale non ne aveva neanche un po’, essendo diviso in una molteplicità di Stati in conflitto tra loro. Basti pensare che non esisteva neppure una lingua comune, e non soltanto tra le classi popolari che parlavano i dialetti, ma neppure tra le élite. Manzoni impiega vent’anni appunto a scrivere un romanzo che tra gli scopi principali aveva proprio quello di creare una lingua nazionale, I promessi sposi. La maestra Donati in Italiana rappresenta gli ideali dei liberali del tempo che lottavano per prescrivere (più che descrivere) caratteri nazionali, quelli che sempre Manzoni prescrive in Marzo 1821: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Non c’era niente di tutto questo in comune da Torino ad Agrigento, Manzoni appunto invitava a costruire quei sentimenti comuni. Ma quello che io credo e vedo è un Paese che è sempre ancora sul punto che descriveva D’Azeglio: uno Stato messo insieme in fretta e furia senza la creazione di un sentimento nazionale, il suo famoso «fatta l’Italia occorre fare gli italiani».
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